venerdì 14 agosto 2015

Gli orfani di Ninni Cassarà

Ninni Cassarà

              Non posso definirmi un amico di Ninni Cassarà. L'ho solo incontrato quasi una volta al giorno per quattro anni. Ci facevamo delle confidenze, via via sempre più personali. Lui, sembrava che mi stimasse. Io, gli volevo bene come a un fratello maggiore. Amicizia, è parola impegnativa che andrebbe usata con prudenza e almeno un po' di buon gusto. Per questo, trent'anni dopo, viene qualche fitta allo stomaco a scoprire di quanti amici coraggiosi fosse circondata una delle vittime della mafia più boicottata e più tragicamente isolata della nostra storia recente. 

            Ho sentito gente di cui Ninni diffidava, raccontare di conversazioni gravide di suggerimenti purtroppo inascoltati dal “testardo Cassarà”. Ho visto personaggi che lui conosceva appena, assumere in tv pose addolorate rievocando fantomatiche “lunghe passeggiate notturne per le vie della città”. Un coro di giornalisti, politici, ma perfino medici o grandi chef, in cerca della medaglietta che possa rattoppare il loro opaco curriculum o farli brillare qualche minuto in un salotto. 

             Non fidatevi, Ninni era solo. Ben altri erano gli uffici, i circoli, le terrazze sul mare, frequentate dagli “amici” di adesso. Gli stessi luoghi bazzicati da poliziotti ambigui, mafiologi a gettone, magistrati d'alto bordo, e figli del sottobosco politico, scalfiti poi solo in parte dalle inchieste su talpe e connivenze.Da quelle parti, più o meno consapevolmente, si preparava la strada ad un delitto mai così annunciato. E Ninni lo sentiva: “Il questore, il capo della Mobile, sono quasi infastiditi dal mio lavoro. Sembra sempre più una questione personale tra i mafiosi e la mia squadra”. Lo leggeva tra le righe di certi articoli: “Sul Giornale di Sicilia appaio quasi come un fuorilegge. Ogni nostro arresto, perquisizione, semplice controllo, vengono raccontati ai palermitani come un atto di prepotenza nei confronti di onesti cittadini”
La prima pagina di Repubblica del 7agosto 1985

            Fino alla certezza finale, quando volò a Londra per far convalidare, con la sua testimonianza, l'arresto del potente boss di Altofonte, Di Carlo. Non ti ho mai visto così preoccupato, Ninni. “C'era tanta brutta gente, ma sono abituato a insulti e minacce. Quello che mi fa male è che qualcuno mi ha scaricato. Si è premurato di fargli sapere che è solo una mia iniziativa, che il resto del cosiddetto fronte antimafia non avrebbe mai osato un simile sgarro”. Faceva già caldo, mancava più o meno un mese all'ora X.

           E nell'ufficio al secondo piano della squadra Mobile, dietro alla targhetta “sezione investigativa”, nessuno sentiva quell'afflato di solidarietà che adesso vi raccontano. Da Calogero Zucchetto, il primo a cadere nel 1982, fino a Peppe Montana, ucciso pochi giorni prima e a Roberto Antiochia morto insieme a Ninni dopo essere tornato spontaneamente dalle ferie per stare vicino al suo capo. O come Natale Mondo, autista “colpevole” di essere scampato all'agguato di quel 6 agosto, e bollato dagli amici del coro come spia della mafia. Si era infiltrato tra i mafiosi su ordine di Ninni di nascosto a colleghi e superiori cui era meglio “non riferire niente, non si sa mai”. 

          Ci cademmo anche noi giovani cronisti de L'Ora, travolti dalle urla del solito coro a caccia di visibilità. In molti poi ci sentimmo in colpa quando la mafia stessa riabilitò definitivamente Natale, uccidendolo sotto casa nel 1988. 

              Tempi difficili e confusi per chi aveva seguito la parabola di Ninni, uomo perbene e di talento, diventato eroe per una questione di senso del dovere e soprattutto di dignità. Ricordo ancora il cazziatone di un nostro indimenticato capo cronista che ci vedeva sciatti, disincantati, isterici: “Picciotti, adesso basta. Non siete voi gli orfani di Cassarà!”. Invece sì. E, in qualche modo, lo siamo ancora.

Nicola Lombardozzi 
La Repubblica

Nessun commento: