Ninni Cassarà |
Non posso definirmi un amico di Ninni Cassarà. L'ho solo incontrato quasi una volta al giorno per quattro anni. Ci facevamo delle confidenze, via via sempre più personali. Lui, sembrava che mi stimasse. Io, gli volevo bene come a un fratello maggiore. Amicizia, è parola impegnativa che andrebbe usata con prudenza e almeno un po' di buon gusto. Per questo, trent'anni dopo, viene qualche fitta allo stomaco a scoprire di quanti amici coraggiosi fosse circondata una delle vittime della mafia più boicottata e più tragicamente isolata della nostra storia recente.
Ho
sentito gente di cui Ninni diffidava, raccontare di conversazioni gravide di
suggerimenti purtroppo inascoltati dal “testardo Cassarà”. Ho visto personaggi
che lui conosceva appena, assumere in tv pose addolorate rievocando fantomatiche
“lunghe passeggiate notturne per le vie della città”. Un coro di giornalisti,
politici, ma perfino medici o grandi chef, in cerca della medaglietta che possa
rattoppare il loro opaco curriculum o farli brillare qualche minuto in un
salotto.
Non
fidatevi, Ninni era solo. Ben altri erano gli uffici, i circoli, le terrazze sul
mare, frequentate dagli “amici” di adesso. Gli stessi luoghi bazzicati da
poliziotti ambigui, mafiologi a gettone, magistrati d'alto bordo, e figli del
sottobosco politico, scalfiti poi solo in parte dalle inchieste su talpe e
connivenze.Da quelle parti, più o meno consapevolmente, si preparava la strada
ad un delitto mai così annunciato. E Ninni lo sentiva: “Il questore, il capo
della Mobile, sono quasi infastiditi dal mio lavoro. Sembra sempre più una
questione personale tra i mafiosi e la mia squadra”. Lo leggeva tra le righe di
certi articoli: “Sul Giornale di Sicilia appaio quasi come un fuorilegge. Ogni
nostro arresto, perquisizione, semplice controllo, vengono raccontati ai
palermitani come un atto di prepotenza nei confronti di onesti cittadini”.
Fino
alla certezza finale, quando volò a Londra per far convalidare, con la sua
testimonianza, l'arresto del potente boss di Altofonte, Di Carlo. Non ti ho mai
visto così preoccupato, Ninni. “C'era tanta brutta gente, ma sono abituato a
insulti e minacce. Quello che mi fa male è che qualcuno mi ha scaricato. Si è
premurato di fargli sapere che è solo una mia iniziativa, che il resto del
cosiddetto fronte antimafia non avrebbe mai osato un simile sgarro”. Faceva già
caldo, mancava più o meno un mese all'ora X.
E
nell'ufficio al secondo piano della squadra Mobile, dietro alla targhetta
“sezione investigativa”, nessuno sentiva quell'afflato di solidarietà che adesso
vi raccontano. Da Calogero Zucchetto, il primo a cadere nel 1982, fino a Peppe
Montana, ucciso pochi giorni prima e a Roberto Antiochia morto insieme a Ninni
dopo essere tornato spontaneamente dalle ferie per stare vicino al suo capo. O
come Natale Mondo, autista “colpevole” di essere scampato all'agguato di quel 6
agosto, e bollato dagli amici del coro come spia della mafia. Si era infiltrato
tra i mafiosi su ordine di Ninni di nascosto a colleghi e superiori cui era
meglio “non riferire niente, non si sa mai”.
Ci cademmo anche noi giovani
cronisti de L'Ora, travolti dalle urla del solito coro a caccia di visibilità.
In molti poi ci sentimmo in colpa quando la mafia stessa riabilitò
definitivamente Natale, uccidendolo sotto casa nel 1988.
Tempi
difficili e confusi per chi aveva seguito la parabola di Ninni, uomo perbene e
di talento, diventato eroe per una questione di senso del dovere e soprattutto
di dignità. Ricordo ancora il cazziatone di un nostro indimenticato capo
cronista che ci vedeva sciatti, disincantati, isterici: “Picciotti, adesso
basta. Non siete voi gli orfani di Cassarà!”. Invece sì. E, in qualche modo, lo
siamo ancora.
Nicola Lombardozzi
La Repubblica
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